Vi è capitato di dover pianificare uno studio con un umanista. Al contrario, ad un umanista è capitato di doversi interfacciare con un conservation scientist.
Inizialmente può essere stata una conversazione difficile da portare avanti, ma alla fine si può dire che ognuno ha giovato dell’altro.
L’umanista sarà saltato sulla sedia alla mia domanda raccapricciante: “Chi è questo tizio raffigurato sulla moneta?” e lui “Ma come non lo vedi che è Aureliano?” e io, distruggendo tutti i suoi sogni: “No, non lo vedo.”
Allo stesso modo, noi abbiamo spesso aggrottato le sopracciglia durante discussioni come: “Mi sai dire da quale cava del Mediterraneo proviene il metallo che è stato estratto per fare questo materiale?” io gli rispondo “Partendo dal presupposto che è difficile, dovremmo usare tecniche invasive per un risultato migliore” e lui “Non si possono usare tecniche non distruttive?”.
Il senso di tutto ciò è che diamo per scontate cose che per noi sono banali, mentre per l’altro non lo sono affatto. Ed è giusto parlare. È utile anche parlare lingue diverse perché prima o poi una mediazione si trova e chi, come me, ha avuto la fortuna di lavorare con gente illuminata sa che il risultato finale di un lavoro interdisciplinare è a dir poco fantastico e soddisfacente.
La mancanza più grande che trovo non è quella di un linguaggio comune, ma di un obiettivo comune: la competitività e l’assenza di lavoro ci mettono spesso l’un contro l’altro armato. Invece diagnosti, storici dell’arte, archeologici, restauratori e via dicendo dovrebbero lavorare sotto lo stesso tetto, sotto la stessa istituzione e dovrebbero essere figure presenti allo stesso modo in un contesto museale, archeologico, di ricerca.
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