“Prendi la direzione opposta all’abitudine e quasi sempre farai bene.”, è il consiglio di Jean-Jacques Rousseau, che ho stampato e appeso vicino la porta di casa, casomai me ne dimenticassi - soprattutto quando sono in ritardo e sarei tentata di prendere la strada principale e dritta invece che i vicoli labirintici per andare in laboratorio- .
D’altronde ho sempre tentato di andare di traverso: arte e scienza, estetica e materia.
Persino quando una mia amica, triste per la mancanza di lavoro, mi ha detto: “Non so cosa voglio fare con la mia laurea in biotecnologie, non so neanche se davvero mi piace o se era meglio che a suo tempo avessi scelto arte o architettura”. Rimasi sorpresa dal fatto che lei non riuscisse a vedere come unire le due cose e le diedi la risposta più ovvia per me: “Ma puoi applicare le biotecnologie sia nell’arte che nell’architettura.”
Lei cadde un po’ dal pero perché non aveva mai ben capito quello che io davvero facessi nella vita (“conservation scientist a chi?”).
Dal biorestauro alla sintesi di prodotti “green”, le biotecnologie stanno diventando indispensabili per la diagnostica artistica e la strada sembra essere aperta, ma ancora tutta da esplorare fino in fondo.
Una strada che, come ci diceva Rousseau, ha una direzione opposta a quella più tradizionale delle scienze biotecnologiche. Una strada trasversale, come i vicoli di Pisa in cui mi addentro ogni mattina e come la scienza della conservazione in generale.
Costruire e percorrere strade in cui confluiscono mondi e ricerche apparentemente diverse, in questo caso arte e biotecnologie, sembra ancora così strano per gran parte della gente che preferisce la noiosa linearità alla arricchente bellezza della trasversalità.
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