Il tempo che un visitatore medio trascorre davanti ad un’opera d’arte in un museo è di circa 30 secondi: così ci dice Riccardo Falcinelli in “Figure”, uno dei suoi ultimi libri.
Cosa si può vedere in 30 secondi? Poco, forse niente.
Lo stesso autore ragiona su come è cambiato, nel corso dei secoli, lo sguardo dell’osservatore nei confronti dell’arte e di come fotografia prima, e merchandising dopo, abbiano modificato il ruolo sociale di importanti capolavori.
Se il secolo scorso era la fotografia a far cambiare il modo di usufruire e guardare l’arte, oggi c’è il 3D e la realtà virtuale. Questi permettono di rendere tangibili i dettagli altrimenti difficili da cogliere nella loro materialità: rilievi, difetti e caratteristiche peculiari della superficie.
Davanti al monitor del proprio computer è possibile girare e rigirare l’oggetto, giocarci a ingrandirlo, cambiarlo di esposizione magari modificare la mesh (in computer grafica, è reticolo che definisce un oggetto nello spazio) per inserirla da un’altra parte. Si può dare un effetto vetroso ad un oggetto metallico e viceversa.
Il 3D è uno strumento prezioso, prima di tutto, per gli studiosi che possono davvero comprendere la natura di un oggetto nella sua complessità materica e lo sviluppo di database basati sulla collezione di questi dati permette una condivisione facile, ma allo stesso tempo approfondita, di informazioni altrimenti più difficilmente accessibili.
In tempo di pandemia i musei virtuali hanno avuto un naturale successo, dopotutto.
Non sappiamo se il visitatore, o meglio, l’osservatore medio rimarrà a guardarsi il modello 3D per non più di trenta secondi, ma auspichiamo la tecnologia possa dare un impulso e uno stimolo alla scoperta dei dettagli che la realtà virtuale ci permette di osservare.
D’altronde, come diceva Paul Auster, la verità della storia è nei dettagli.
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